Oggi, 6 gennaio 2105, festa dell’Epifania.
Sono con mia madre novantottenne nella casa paterna a Cornate d’adda in Brianza,dove sono nato tanti anni fa e dove ho passato parte della mia fanciullezza e a intervalli altri anni che in un modo o nell’altro hanno scandito le alterne vicende della mia vita.
Siamo davanti ad una stufa in ghisa che ho reinstallato un paio di anni fa, con l’intento di ardere la legna derivata dalla potatura del giardino, rendendo così la casa calda ed accogliente come le case di una volta.
Il giardino di casa appunto che nessuno aveva mantenuto in ordine durante l’assenza di mia madre, ricoverata in una casa di riposo non lontano da qui per quattro anni.
Il nostro giardino ha fornito così la maggior parte del combustibile che ha alimentato la stufa lo scorso inverno, ma che ormai sta finendo.
Con un poco di dispiacere abbiamo iniziato ad usare un altro tipo di legna.
Mia madre quando
mi vede mettere nella stufa una legna diversa dalla solita, mi chiede “ma che legna è quella lì”
“Eh mamma, è quella derivata dalla demolizione dello scaffale che c’era da Barbieri!”
“Lo scaffale di papà?” “Sì” rispondo io “proprio quello”.
Il breve interloquire, e il fuoco che arde nella stufa riportano alla memoria ricordi che sembravano sepolti, senza esserlo mai stati.
Questo scaffale storico rappresenta infatti una parte simbolica e insieme importante della mia storia e di quella della mia famiglia.
Uno scaffale in legno Douglas e pino che ha accompagnato la mia fanciullezza , gli anni della formazione, e oltre, sino al 2003 quando, non avendo posto dove metterlo lo abbiamo smontato, e accatastato nei locali a piano terra per un poco di tempo e poi tagliato a piccoli pezzi e accatastato in giardino.
Così finiva lo scaffale dove mio padre nel lontano1951 immagazzinava le manopole e gli altri articoli e accessori per moto e ciclo che lui produceva nella sua piccola azienda, la “Nava materie plastiche, di Giuseppe Nava” sempre a Cornate d’adda, nei locali della villa Barbieri,dove abitavamo.Dall’altra parte del portico, un grande locale della vecchia filanda , dove c’era l’opificio.
Avevo solo dieci anni, ma per poter giocare con Piero il mio amico del cuore dovevo lavorare almeno un’ora.
Il lavoro era vario, cioè qualsiasi cosa fosse necessaria fare, ma mio padre sceglieva quasi sempre quella che sapeva non essere di mio gradimento, come preparare i fasci di 50 paia di manopole divisi per colore e tipo,legarli con uno spago e metterli ordinatamente nello scaffale di cui parliamo.
Bisognava comunque essere in due per farlo, non era semplice tenere insieme tutte queste manopole che scivola vano da tutte le parti, ma insieme a Piero era più facile, e poi in due si poteva anche stivare in bell’ordine questi strani rotoli nelle caselle dello scaffale, almeno sino a quelle della quarta fila, il cui piano di appoggio era a un metro e ottanta dal suolo.
Ricordo che uno di noi saliva su di una cassa di legno per guadagnare quei quaranta centimetri che mancavano.
Ci era proibito scalare lo scaffale, pena un’altra ora di lavoro, e dopo l’esperienza della prima ora supplementare, avevamo imparato a nostre spese a rispettare l’ordine.
In quei momenti lo scaffale rappresentava la fatica del lavoro, il rispetto delle regole e l’ostacolo all’andare a giocare.
Non lo amavo e la sua presenza era un ricordo continuo e costante delle parole di mio padre: “prima viene il dovere e poi il piacere”, una bella base di comportamento civile e responsabile che dovrebbe accompagnare tutti.
In una sola volta papà ci insegnava a rispettare l’autorità, gli ordini,le regole, guadagnarci il premio, ma anche ad accettare la giusta punizione per chi non le rispetta.
Mentre questi pensieri attraversano la mente mi viene da dire “grazie papà”, a voce alta.
Mamma Elena, che è qui davanti a me mi sente e gli occhi gli si riempiono di lacrime e dice “papà non smette mai di volerci bene, ci scalda ancora dopo tanto tempo, con ciò che ha costruito e lasciato”.
Una bella festa dell’Epifania, al fuoco dei sentimenti.
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